Tutti noi abbiamo fatto la naja alpina, chi di più, come i nostri reduci, chi di meno, come i più giovani. Sono stati giorni che spesso sembrava che non passassero mai e si sognava di tornare presto a casa dai nostri genitori o dalla ragazzina che al momento della nostra partenza ci giurava eterno amore … forse già dimenticato.

Esercitazioni, ordine chiuso, marce forzate, rancio, gavette squallide cucine da campo, notti stretti nelle tende mentre fuori pioveva a dirotto o c’era la tormenta di neve. Guardie, corvé, libere uscite (con i soldi contati!) e punizioni spesso ingiuste inflitte da superiori di cui spesso dubitavamo le capacità e l’intelligenza. E poi i muli da pulire, brusca e striglia, rifare le lettiere e portare via il letame. Abbeverate e muli imbizzarriti in fuga per il piazzale della caserma. E questo maledetto mulo che, quando gli stringi il sottopancia, lui si gonfia e trattiene il fiato, cosi che poi, in marcia il basto scivola di lato ed il carico finisce per terra. E le urla inumane del capitano a due dita dal tuo naso, che sembra che ti voglia incenerire giurando che ti manda a Gaeta, ma poi te la cavi con due giorni di consegna.

Abbiamo sudato sotto quel cappello di feltro o sotto la “stupida” (berretto norvegese), con le spalle che duolevano per il peso dello zaino. Non ce la facevamo più e ci veniva da piangere per la disperazione e per la rabbia, ma era proprio la rabbia che ci faceva fare ancora un passo, e poi ancora un altro, finché si giungeva alla meta e quasi ci meravigliavamo di avercela fatta.

E quella notte che abbiamo marciato tutta la notte per quella mulattiera di montagna: tutta la notte sotto la pioggia battente. Bagnati fradici, con l’acqua che ad ogni passo zampillava fuori dagli scarponi. E maledivi la naja. E giuravi che, una volta congedato, non avresti mai più messo il cappello alpino in testa.

Però di sera in caserma quel maledetto cappello te lo curavi con molta attenzione, lo tiravi, gli sistemavi meglio la penna, … ti accorgevi che gli volevi bene e che ne eri fiero ed orgoglioso, e poi, appena congedato, correvi al Gruppo del tuo paese per iscriverti all’ANA.

Tutti, chi più, chi meno, abbiamo fatto questo tipo di esperienze. Alcuni ne hanno fatte di tipo diverso perché c’era la guerra. Per altri ancora, più giovani, le esperienze sono state altre (magari senza i muli), ma il risultato non cambia: sono state esperienze alpine che hanno lasciato un segno nella nostra vita, nel nostro carattere, nel nostro modo di vivere.

Ebbene, la mia esortazione è: non lasciate morire quelle esperienze e quei ricordi, prendete carta e penna (o magari la tastiera del PC) e raccontate qualche aneddoto della vostra vita militare. Santo cielo! In tanti mesi di naja possibile che non vi sia successo qualcosa (di bello o di brutto, di allegro o di triste) che valga la pena raccontare?

 

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